venerdì 5 marzo 2010

Paura.

E' possibile avere paura di un oggetto?

La paura è irrazionale, si sa, ma in teoria sarebbe sensato investirla su esseri che con il loro agire ci possono danneggiare. Poi noi siamo costretti a relazionarci con questi esseri in termini di fuga o sfida.

Può un oggetto, un frullatore, una lavatrice, un soprammobile fare paura?
In teoria no.
Dovrebbero suscitare apprezzamento, critiche, disgusto, ma non paura. Quella no.

Anche se ci sono oggetti e oggetti.

LUI stava camminando per strada e l'oggetto che aveva nella borsa gli pesava parecchio. Ad ogni passo che faceva gli sembrava che la tracolla lo stesse segando in due. In diagonale poi, veramente inelegante e asimmetrico.
Non si ricordava nemmeno perchè l'aveva preso e portato con sè.
Anzi sarebbe più preciso dire che se lo ricordava benissimo, ma che non voleva riportare alla mente quel pensiero.
Il pensiero che l'aveva messo in borsa come sfida a quell'oggetto. Una sfida che stava perdendo un passo alla volta.
L'aveva portato con sè la mattina uscendo, dicendosi, cercando di convincersi che l'avrebbe trattato come ogni altro oggetto nella sua borsa. Sicuramente il pacchetto di gomme da masticare, schiacciato sul fondo e ridotto ad un ammasso contorto, o l'ombrello pieghevole non occupavano i suoi pensieri con la ricorrenza ossessiva suscitata da quell'altro oggetto.

Le bugie che ci raccontiamo sono sempre molto convincenti quando le inventiamo. Purtroppo più le tiri fuori dal mazzo, più fanno come le carte scadenti che compri al negozio cinese sotto casa. Si sfaldano, aprendosi in due e mostrandosi per quello che sono: sottili strati di carta di bassa qualità, con qualche disegnino colorato sopra.

L'oggetto era rimasto al margine dei suoi pensieri, trovando mille e più scuse per non usarlo, per lasciarlo tra le falde di pesante tela nera della tracolla, fino al momento di tornare a casa.

Il tempo libero è la cosa peggiore che possa capitarci, forse. Finisce sempre che lo usiamo, non per divertirci veramente, ma per lasciare entrare nella testa un sacco di paranoie, ragionamenti irrisolti, parole non dette, azioni non fatte. Poi ovviamente per tamponare quest'emorragia di autocoscienza, ci anestetizziamo circondandoci di persone, buttandoci a capofitto in attività sociali considerate universalmente divertenti, usando qualsivoglia droga legalizzata disponibile e talvolta anche quelle illecite. Tutti che si divertono, tutti che si stanno praticamente infilando un ago in un braccio per non fare i conti con lo schifo quotidiano.
E il week-end è l'apice parossistico di un ciclo che si autoalimenta e che arriva puntuale ogni settimana. Realtà per cinque giorni, poi dalla sera di venerdì a quella di domenica a cecare di dimenticare. Se non sei capace di divertirti o non hai nessuno con cui farlo, cazzi tuoi.

Alla fine LUI ce la fa a tornare a casa e senza essere tagliato in due come l'assistente di un prestigiatore incapace.
Dopo pochi passi dentro l'appartamento gettò la borsa in un angolo e cominciò a cercare freneticamente qualcosa da fare, finendo inevitabilmente su una sedia davanti al computer a farsi i cazzi degli altri attraverso il magico mondo della Rete. La gamba che comincia a tremare sotto la scrivania, però, tradiva un'ansia talmente evidente, che negarla lo avrebbe fatto sembrare più stupido di Clinton quando negava davanti alla sua nazione. E si può anche accettare di sembrare stupidi di fronte agli altri, anche un'intera confederazione di cinquantuno stati (contando anche D.C.), ma farlo di fronte a se stessi, a lungo andare non ce la si fa. Almeno è indice di un livello minimo di amor proprio. Giusto una briciola.

Era solo nell'appartamento, quindi niente pubblico con cui fingere superiorità. Non che la presenza di altri potesse rendere qualsiasi cosa più facile. Semplicemente quando hai un pubblico le emozioni esteriori che fingi sono più convincenti anche per te.

Sapeva cosa doveva fare e controvoglia cominciò a farla. Si staccò dal monitor, che praticamente era una versione digitale e più efficiente della portiera dello stabile. Recuperò la borsa, prendendola per la tracolla e trascinandola sul pavimento, la avvicinò alla scrivania. Si risedette a fissare la tela nera afflosciata a terra.
Stava cominciando a sembrare una Via Crucis: un sacco di stazioni e momenti dedicati alla contemplazione del dolore.
LUI odiava cordialmente i riti religiosi e il pensiero lo infastidì parecchio, dandogli la forza di infilare la mano tra le falde di stoffa ruvida, tendendo le cuciture sfilacciate, i cui fili spiccavano bianchi sul nero, come spaghetti sconditi, scotti e insipidi su piatti di design svedese.
La mano uscì dall'abisso di tessuto e cianfrusaglie, portando con sè una busta di plastica e dentro di essa l'oggetto.
Incredibilmente ci teneva all'oggetto e ne aveva cura, cercando di proteggerlo da agenti esterni con quel sottile velo di petrolio raffinato.
Forse ci teneva tanto proprio per la stessa ragione per cui lo temeva: la sua provenienza, in termini di tempo, spazio e persone coinvolte.

Sotto la plastica la forma a parallelepipedo rivelava che l'oggetto in questione era un libro. Tirato fuori dal suo ultimo involucro, l'oggetto stava appoggiato sulla scrivania e, per quanto fosse inerte, a LUI sembrava farsi più grande un millimetro al secondo, come se il suo cervello cancellasse tutto quello che stava attorno. L'attenzione si focalizzava sullo spigolo del parallelepipedo, così saldo nonostante fosse composto da centinaia di sfoglie sottili, dal quale si apriva lo scorcio obliquo della copertina. La copertina colorata, ma a dominante bianca, tanto che i caratteri scuri del titolo sembravano mosche posate su una ciotola di latte in cui galleggino cereali alla frutta colorati.
L'idea che così tante mosche si fossero posate, gli faceva pensare che forse quel latte era andato a male e che berlo gli avrebbe fatto male.

Era quello il nocciolo della questione il desiderio di avvicinare quell'oggetto, quel libro, e contemporaneamente la paura di quello che avrebbe potuto succedere dentro di lui dopo averlo fatto.

Il libro era un regalo. E mentre lo fissava poche parole salivano agli strati superiori della coscienza dagli oscuri ripostigli puzzolenti di muffa della memoria.

- Lo so, è un libro difficile. Sembra quasi un dispetto regalarlo, ma è il mio libro preferito.
- Ma no, tranquilla. Quando si regala un libro che si ama, chi lo legge può assaggiare una fetta della persona che gliel'ha dato e non fermarsi solo alla glassa di copertura.

Era passato un sacco di tempo da quella sua scadente metafora culinaria. Al tempo cercava di fare colpo su LEI con questo genere di peripezie linguistiche, che lì per lì sembravano anche carine. Col tempo gli era sembrata sempre più una cosa veramente ridicola da dire e a nche abbastanza banale. Ora però LEI era il passato, LUI era andato avanti e tutte le altre cazzate che si dicono in questi casi. Le persone in realtà non passano e non si va mai veramente avanti da un certo punto della vita in poi. Si rimpiazzano le persone, accatastando relazioni come i blocchetti del Jenga, e si sguazza nel proprio essere convincendosi della giustezza delle proprie azioni, girando in tondo.

Comunque ci sono stati di rassegnazione e accetazione del reale che ti permettono di usare tutte quelle belle espressioni pre-confezionate.
Girare pagina.
Svoltare l'angolo.
Ritrovare la serenità.
Riappacificarsi col mondo.
Ognuno sceglie le parole che preferisce.
LUI aveva scelto "affanculo tutto e tutti" e sembrava dargli una certa tranquillità.

Però la tranquillità sembrava pericolosamente in pericolo al momento. Temeva che aprire le pagine ancora compatte e forzare il dorso senza pieghe di quell'edizione economica sarebbe equivalso a tirare direttamente il blocchetto alla base della torre per rimetterlo in cima. Tirarlo via lasciando crollare tutto quello che ci stava sopra e assaggiare ancora una volta una fetta di quella persona. Ritrovare tra le pagine di quel libro l'inebriante, giocosa follia con una vena di pragmatismo sensuale e malizioso ammiccamento, veicolata attraverso una retorica semplice e immediata, una razionalità, strisciante sotto la superficie delle invenzioni fantastiche, che rivela le incongruenze della vita quotidiana, una condivisione di tante qualità e di gusti che LUI aveva già trovato in LEI, facendogli nascere il desiderio di affascinarla con esibizioni culturali e frasi involute, belle e vuote come una coda di pavone o un deretetano di babbuino.

Le cose, si sa, non vanno mai come si spera, si vuole, si prevede e tanto meno come dovrebbero. Le cose vanno e basta. Noi dobbiamo solo adattarci. Questo non vuol dire che non ci si debba stare male.

Quindi LUI si era ritrovato rimpiazzato abbastanza in fretta da un altro con parole migliori e una radianza più in sintonia con quella di LEI. Forse direttamente un uomo migliore, non lesiniamo parole. La cosa non sarebbe drammatica in sè, nè uscirebbe dal dominio del triviale, ma per chi c'è dentro qualsiasi cosa sembra portarti fuori dal dominio del piatto quotidiano diventa una trave del relitto di quella vita che vorremmo vivere, a cui aggrapparsi durante il naufragio nel mare dell'ignavia.

Dopo aver speso tempo ed energie ad uscire da determinate aree oscure della propria mente, senza l'aiuto da parte proprio di quelle persone che più di tutti l'avrebbero potuto fare, senza l'aiuto di quella persona, che evidentemente riusciva a passare sopra certe cose come fosse uno schiacciasassi, senza effettivamente provare a capire come potessero stare le altre persone, LUI si ritrovava di nuovo a combattere. Il problema è che a guardarlo sembrava avere più l'aspetto del reduce che del guerriero.

Il libro lo fissava, poteva quasi sentirlo. Si sentiva giudicato per la sua codardia, per le sue continue affermazioni di indifferenza per l'oggetto, smentite sempre dalle sue fughe, per la cura con cui lo trattava, che tradiva un desiderio come per quella persona, anche solo per una fugace e bambinesca vendetta, come se fosse una cisti sottocutanea piena di larve di insetto pronta ad esplodere.
Affrontarlo poteva voler dire vincere o perdere. In entrambi i casi niente di buono poteva uscirne. Infatti in caso di vittoria, si sarebbe cullato nell'autostima fino ad essere di nuovo abbastanza sicuro da non chiudere più a chiave la porta, in maniera tale che qualcun'altro entrasse e lo derubasse dell'amor proprio mentre non stava attento o dormiva. In caso di sconfitta nemmeno da descrivere l'ondata di pseudo-depressione adolescenziale che l'avrebbe colto.

Ma cosa rende veramente un uomo?
Affrontare cose del genere ti rende veramente migliore?
Non finisce per toglierti ulteriormente quel poco di buono che abbiamo, lasciandoci a raschiarlo dalle pareti del barattolo vuoto che diventiamo?
O forse ci deve entusiasmare il trovare in noi stessi lo stesso spirito di sacrificio e coraggio, che dimostrarono i grandi combattenti che troviamo nei libri di storia?
Ci dobbiamo vantare anche solo di aver intrapreso la sfida?
La codardia è davvero un disvalore o ti fa solo valutare con più attenzione quali sono le sfide che vale la pena affrontare?

Tutte queste risposte sarebbero dovute arrivare un altro giorno per LUI. Ormai era tardissimo e i finti impegni, creati ad hoc del giorno dopo, necessitavano di qualche ora di sonno. Si voleva convincere che il giorno dopo, mettendo la busta di plastica nella borsa di tela, sarebbe stato il giorno giusto. Sarebbe stato il giorno in cui si sarebbe sceso da cavallo, avrebbe sguainato la spada, con quel sibilo argentino, e affrontato il drago. Avrebbe vinto o perso. Fine

Mentre si metteva sotto le coperte, cominciò a chiedersi cosa potesse essere quel senso di nausea che gli saliva dalla bocca dello stomaco fino alla base del cranio, lasciando nel tragitto sulle papille gustative un retrogusto di acido gastrico.
Sapeva perfettamente cos'era, ma porre la domanda all'io cosciente poteva aiutarlo a far finta del contrario.

Aveva bisogno non di mentire a se stesso ma di dimenticare veramente, rimuovere in senso freudiano, il perchè.

Era da due mesi che la spada rimaneva nel suo fodero.

Per LUI le risposte vengono sempre il giorno dopo.


As Your Life In Hell